martedì 17 novembre 2015

Kundun





Oceano di Saggezza, Incomparabile Maestro, Yeshe Norbu o Gioiello che esaudisce tutti i desideri, Prezioso, Vittorioso o Gyalwa Rimpoche, Signore del Loto Bianco, o più semplicemente Kundun, la Presenza: questi titoli e altri ancora evocano la potenza, la conoscenza, la benevolenza e la compassione con cui i tibetani  invocano il più riverito tra loro : il Dalai Lama. L’istituzione storica del Dalai Lama affonda le radici nel concetto di reincarnazione: ogni essere, quale che sia, porta in sé il seme del Risveglio e finirà per accedervi, anche se il suo cammino dovrà prolungarsi nel tempo. Tuttavia alcuni sono migliori di altri, grazie al lavoro assiduo su sé stessi vi giungono più veòlocemente. Nel corso delle vite successive essi si impongono, divenendo capaci di scegliere sotto quale forma rinascere per completare questo divenire.  Tale privilegio è appannaggio di un piccolo numero, che i tibetani chiamano tulku ( letteralmente corpo di trasformazione).
Questa tradizione si affermò nel Tibet ne XIII sec con la scoperta del secondo Karma-pa, capo della scuola Kagyupa, e in seguito ribadita da altri grandi maestri, assicurando in tal modo la continuità nella trasmissione del sapere da una generazione all’altra, ma anche una continuità politica.
Il lignaggio del Dalai Lama è invece più tardo: esso risale al XVI secolo, sulla scia dell’affermazione dell’ordine dei Gelupa, fondato dal riformatore Tsongkhapa.



Per i tibetani il Dalai Lama è comunque un essere a sé. Le sue numerose doti ne fanno un essere eccezionale; ma egli possiede altro ancora: la sottile alchimia dello scambio ininterrotto tra la sua gente  e lui. Per i tibetani, non solo egli è il protettore, incarnazione del Bhodhisattva della compassione infinita, ma è altresì la personificazione di un paese perduto e il pegno della sua perennità, la promessa di un ritorno.
Nato il 6 luglio 1935 ( il quinto giorno del quinto mese dell’anno Legno-maiale) in una modesta fattoria di un villaggio dell’Amdo ( a est del Tibet)  è stato scelto da una missione di alti dignitari, poi portato a Lhasa nell’ottobre del 1938 e incoronato nel Trono del Leone nel 1939. Nel 1949 il nuovo potere che si insedia a Pechino annuncia subito l’intenzione di “ liberare il Tibet”. Ciò si traduce subito in una occupazione militare contrassegnata nel 1959 da una rivolta popolare anticinese repressa nel sangue. Da allora ha inizio l’esilio del Dalai Lama e l’inizio di un centinaio di migliaia di tibetani che si riversano principalmente in India.
Interrogato sul suo avvenire, il Dalai Lama ripete che egli non è che un uomo, come lo era il Buddha, e che verso i suoi simili, gli esseri umani, verso le loro sofferenze, che vanno la sua compassione e la più profonda comprensione.

 “ Noi siamo qui in visita” dice “e come dei turisti che fanno esperienze, possiamo solo passare. Senza tolleranza né dialogo, ci rendiamo noi stessi la vita intollerabile, e snaturiamo ancora di più il nostro ambiente. Dovremmo invece compiere il nostro piccolo sforzo per rendere il mondo più vivibile a tutti, liberato infine dalla violenza che lo corrode e lo distrugge” E così continua. “ Il Tibet può benissimo concepirsi senza Dalai Lama. Ha vissuto a lungo prima che ci fosse tale istituzione, e in teoria questo potrebbe tornare possibile. Le istituzioni umane passano, e che continuino o meno è questione di circostanze…Me per ora il Dalai Lama è un simbolo, un simbolo del Tibet. Ecco perché egli è importante. In futuro fra trenta, quaranta anni, non saprei: tutto cambia. Del resto esseri che possiedono tutte le qualità richieste per essere Dalai Lama ce ne sono sempre. L’incarnazione di un Buddha o di un Bodhisattva continua a manifestarsi comunque, e non solo sotto forma umana”.

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