lunedì 2 novembre 2015

Il Passaggio della Morte nel Buddismo Tibetano


Né inizio né fine
Sostanza invariabile che non nasce né muore.

Bronzo del XVIII sec. con una delle sei divinità che accompagnano il defunto nei regni ultamondani ( bardo)

Integrare la morte nella vita fa parte del vissuto quotidiano dei tibetani. L’una non esiste senza l’altra, e il concetto cardine di impermanenza o di divenire autorizza a identificarvi la pietra di paragone di un intero modo di essere.
“ Presto o tardi” dice il Dalai Lama “ la morte verrà. Pensarci e prepararsi può rivelarsi utile quando poi arriva.  Se si crede in un’altra vita, allora è utile essere pronti alla morte, perché così si è meno intimoriti dal suo processo e non si complica la situazione con i propri pensieri”.
Nella tradizione tibetana il Signore della Morte è una divinità feroce, dal’aspetto terribile. “ Colui che scioglie dai lacci” porta il nome di Yamantaka, ed è l’altra faccia di Manjushri, Bodhisattva della saggezza i cui attributi sono il libro e la spada che taglia dai lacci dell’ignoranza.. E’ rappresentato con una o più teste taurine e con una o più braccia. Tale ambivalenza esprime la concezione buddista della metamorfosi perpetua che regge l’intera esistenza. Il sentimento profondo della morte non esclude che essa sia accompagnata da specifici riti. Al contrario l’agonizzante viene accompagnato, al fine di superare serenamente le tappe del suo cammino, e al momento che lo spirito vitale ha abbandonato il corpo, preghiere e cerimonie si succedono per condurlo in un porto  lungo i sentieri tortuosi dei regni oltremondani del bardo. Viene consultato il Lama officiante, o un astrologo al fine di determinare il programma rituale e il momento più favorevole per la sua celebrazione.
Il mondo aldilà della vita è popolato, per i tibetani, da creature singolari che, in realtà sono proiezioni dello spirito umano e la cui simbologia ne riflette semplicemente le paure e le angosce. Così i citipati, o maestri delle pire, sono accoliti di Yama, e la loro raffigurazione come scheletri danzanti, di solito a coppie, la  si ritrova insieme a quella delle divinità feroci.
Essi illustrano la natura effimera dell’esistenza e sono emblemi della cessazione dell’attaccamento alla vita e delle sofferenze terrestri.
Le energie femminili sono personificate dalle dakini. Rappresentate spesso quali belle figure femminili, dall’espressione lievemente minacciosa, solo i loro attributi- kapala, -collari di crani o spade- ne indicano la natura, incitando i fedeli a farsene delle alleate piuttosto che delle avversarie.

I citipati, accoliti del Signore della Morte
Una volta abbandonato dal soffio vitale, il cui punto è alla sommità del cranio, il cadavere deve ritornare a uno dei suoi elementi costitutivi: fuoco, acqua, aria, fuoco. L’inumazione era riservata ai grandi di questo mondo ( il re nel sepolcro, il saggio nel chorten) imbalsamati e vestiti degli abiti più preziosi. Alcuni grandi saggi realizzati avrebbero il dono, giunto il momento, di “dissolversi” letteralmente in quello che viene chiamato “ un corpo arcobaleno”.
L’usanza dei “funerali celesti”è la più diffusa e viene praticata in un luogo appartato, spesso nelle vicinanze dei monasteri, da membri della corporazione dei ragyapa. Essi hanno il compito di sezionare il cadavere ritualmente alla presenza di un lama officiante e dei parenti del defunto e di gettare poi i resti in pasto agli uccelli da preda. Per i tibetani si tratta di un’ultima prova di non attaccamento a un corpo passeggero e di solidarietà verso altre creature che si nutrono di altri resti.
Presso i tibetani esiste una guida per evitare gli ostacoli sullo stretto sentiero che porta da una vita all’altra. Si tratta del Bardo Thodol, o Libro dei morti tibetano. Il testo viene letto dall’officiante all’orecchio del morente, e gli spiega le tappe del suo cammino spronandolo a non soccombere alla paura nell’attraversamento dei luoghi sconosciuti, a disfarsi dell’attaccamento senza tornare a spaventare i viventi e a cogliere l’occasione di apprender la Chiara Luce quando la incontrerà.
Proprio per riuscire in tale difficile passaggio i praticanti si sforzano, nella meditazione, di stabilire una mappa di questo territorio disseminato di trappole, con lo scopo di vivere coscientemente la morte, pegno essenziale per una buona rinascita.
Da “ Buddismo tibetano” di Claude B Levenson- Mondadori editore

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