…C’era
qualcosa lassù che col passare del tempo divenne per me sempre più importante:
il silenzio. E’ un’esperienza a cui non siamo più abituati. Lassù faceva da
sfondo a tutte le esperienze.
C’erano
vari silenzi ed ognuno aveva le sue qualità. Di giorno il silenzio era la somma
del cinguettare degli uccelli, del gridare degli animali, del soffiare del
vento su cui non compariva mai un suono che non venisse dalla natura: non il
rumore di un motore, né quello prodotto da un uomo. Di notte il silenzio era un
unico sordo rimbombo che usciva dalle viscere della terra, attraversava i muri,
entrava dappertutto. Il silenzio lassù era un suono. Un simbolo dell’armonia
dei contrari a cui aspiravo? I miei orecchi, mi accorgevo, non sentivano assolutamente
nulla, ma quel rimbombo era fuori e dentro la mia testa. La voce di Dio? La
musica delle sfere? Stando in ascolto, anch’io cercavo di definirlo ed
immaginavo un enorme pesce che cantava sul fondo del mare.
Meraviglioso
il silenzio! Eppure noi moderni, forse perché lo identifichiamo con la morte,
lo evitiamo, ne abbiamo quasi paura. Abbiamo perso l’abitudine a stare zitti, a
stare soli. Se abbiamo un problema, se ci sentiamo prendere dallo sgomento,
preferiamo correre a frastornarci con un qualche rumore, a mischiarci a una
folla anziché metterci da una parte , in silenzio, a riflettere. Uno sbaglio, perché il silenzio è
l’esperienza originaria dell’uomo. Senza il silenzio non c’è parola. Non c’è
musica. Senza silenzio non si sente. Solo nel silenzio è possibile tornare in
sintonia con noi stessi, ritrovare il legame fra il nostro corpo e tutto quello
che ci sta dietro.
Un
tempo predicavo, a chi mi voleva ascoltare, la santità del silenzio, finché tra
le vecchie storie indiane ne avevo trovata una che in poche parole spiega
tutto.
Un re va da un famoso rishi nella
foresta.
“Dimmi qual è la natura del Sé?”chiede
Il vecchio lo guarda e non risponde.
Il re ripete la domanda. Il rishi non
risponde. Il re chiede di nuovo la stessa cosa, ma il rishi resta muto.
Il re s’arrabbia e urla:”Io chiedo e tu
non rispondi!”
“Tre volte ti ho risposto ma tu non stai
a sentire” dice calmo il rishi. “La natura del Sé è il silenzio.”
Ramana Maharishi, il mistico indiano morto nel 1950 nel suo ashram ai
piedi dell’Arunachal, la montagna che lui si era scelto come guru, era solito
dire:” Ci sono vari modi di comunicare con qualcuno: toccandolo, parlandogli,
ma soprattutto col silenzio.” Il
silenzio di Ramana era “potente” e
tantissimi visitatori erano sopraffatti dalla sua semplice presenza. Somerset Maugham, lo scrittore inglese,
entrò nella stanza dove Ramana sedeva e svenne. Lo psicologo Carl Jung, pur avendo già preso accordi
per incontrare il grande mistico durante il suo soggiorno indiano, all’ultrimo
momento rifiutò di andarci. Forse temette che il semplice silenzio di Ramana facesse crollare la sua teoretica
visione della psiche.
Col
passare dei giorni avevo l’impressione che al silenzio fuori dal mio rifugio
nelle montagne corrispondesse sempre di più un silenzio dentro di me e questo,
unito alla solitudine, mi dava momenti di vera esaltazione. Senza distrazioni,
senza stimoli esterni, la mente era libera di seguire i suoi fili, di uscire
dai suoi limiti e alla fine di calmarsi. Una mente silenziosa non vuol dire una
mente senza pensieri. Vuol dire che i pensieri avvengono in quella quiete e
possono essere osservati. Possono essere pensati meglio. Possono essere meglio
osservati.
Mai
come oggi il mondo avrebbe bisogno di maestri di silenzio e mai come oggi ce ne
sono così pochi. Bisognerebbe averli nelle scuole: ore dieci lezione di
silenzio.
Una
lezione difficile perché, sintonizzati come siamo sulla costante cacofonia
della vita nella città, non riusciamo più sentire il silenzio. Eppure, varrebbe
la pena provare.
Tiziano
Terzani “ Un altro giro di giostra”
Nessun commento:
Posta un commento