Oceano di Saggezza, Incomparabile Maestro, Yeshe Norbu o Gioiello che
esaudisce tutti i desideri, Prezioso, Vittorioso o Gyalwa Rimpoche, Signore del
Loto Bianco, o più semplicemente Kundun, la Presenza: questi titoli e altri
ancora evocano la potenza, la conoscenza, la benevolenza e la compassione con
cui i tibetani invocano il più riverito
tra loro : il Dalai Lama. L’istituzione storica del Dalai Lama affonda le
radici nel concetto di reincarnazione: ogni essere, quale che sia, porta in sé il
seme del Risveglio e finirà per accedervi, anche se il suo cammino dovrà
prolungarsi nel tempo. Tuttavia alcuni sono migliori di altri, grazie al lavoro
assiduo su sé stessi vi giungono più veòlocemente. Nel corso delle vite
successive essi si impongono, divenendo capaci di scegliere sotto quale forma
rinascere per completare questo divenire.
Tale privilegio è appannaggio di un piccolo numero, che i tibetani
chiamano tulku ( letteralmente corpo
di trasformazione).
Questa tradizione si affermò nel Tibet ne XIII sec con la scoperta del
secondo Karma-pa, capo della scuola Kagyupa, e in seguito ribadita da altri
grandi maestri, assicurando in tal modo la continuità nella trasmissione del
sapere da una generazione all’altra, ma anche una continuità politica.
Il lignaggio del Dalai Lama è invece più tardo: esso risale al XVI
secolo, sulla scia dell’affermazione dell’ordine dei Gelupa, fondato dal
riformatore Tsongkhapa.
Per i tibetani il Dalai Lama è comunque un essere a sé. Le sue
numerose doti ne fanno un essere eccezionale; ma egli possiede altro ancora: la
sottile alchimia dello scambio ininterrotto tra la sua gente e lui. Per i tibetani, non solo egli è il
protettore, incarnazione del Bhodhisattva della compassione infinita, ma è altresì
la personificazione di un paese perduto e il pegno della sua perennità, la
promessa di un ritorno.
Nato il 6 luglio 1935 ( il quinto
giorno del quinto mese dell’anno Legno-maiale) in una modesta fattoria di un
villaggio dell’Amdo ( a est del Tibet) è
stato scelto da una missione di alti dignitari, poi portato a Lhasa
nell’ottobre del 1938 e incoronato nel Trono del Leone nel 1939. Nel 1949 il
nuovo potere che si insedia a Pechino annuncia subito l’intenzione di “
liberare il Tibet”. Ciò si traduce subito in una occupazione militare contrassegnata
nel 1959 da una rivolta popolare anticinese repressa nel sangue. Da allora ha
inizio l’esilio del Dalai Lama e l’inizio di un centinaio di migliaia di
tibetani che si riversano principalmente in India.
Interrogato sul suo avvenire, il
Dalai Lama ripete che egli non è che un uomo, come lo era il Buddha, e che
verso i suoi simili, gli esseri umani, verso le loro sofferenze, che vanno la
sua compassione e la più profonda comprensione.
“ Noi siamo qui in
visita” dice “e come dei turisti che fanno esperienze, possiamo solo passare.
Senza tolleranza né dialogo, ci rendiamo noi stessi la vita intollerabile, e
snaturiamo ancora di più il nostro ambiente. Dovremmo invece compiere il nostro
piccolo sforzo per rendere il mondo più vivibile a tutti, liberato infine dalla
violenza che lo corrode e lo distrugge” E così continua. “ Il Tibet può
benissimo concepirsi senza Dalai Lama. Ha vissuto a lungo prima che ci fosse
tale istituzione, e in teoria questo potrebbe tornare possibile. Le istituzioni
umane passano, e che continuino o meno è questione di circostanze…Me per ora il
Dalai Lama è un simbolo, un simbolo del Tibet. Ecco perché egli è importante.
In futuro fra trenta, quaranta anni, non saprei: tutto cambia. Del resto esseri
che possiedono tutte le qualità richieste per essere Dalai Lama ce ne sono
sempre. L’incarnazione di un Buddha o di un Bodhisattva continua a manifestarsi
comunque, e non solo sotto forma umana”.
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