Né inizio né
fine
Sostanza invariabile che non nasce né
muore.
Bronzo del XVIII sec. con una delle sei divinità che accompagnano il defunto nei regni ultamondani ( bardo) |
Integrare la morte
nella vita fa parte del vissuto quotidiano dei tibetani. L’una non esiste senza
l’altra, e il concetto cardine di impermanenza o di divenire autorizza
a identificarvi la pietra di paragone di un intero modo di essere.
“ Presto o tardi” dice
il Dalai Lama “ la morte verrà. Pensarci e prepararsi può rivelarsi utile
quando poi arriva. Se si crede in
un’altra vita, allora è utile essere pronti alla morte, perché così si è meno
intimoriti dal suo processo e non si complica la situazione con i propri
pensieri”.
Nella tradizione
tibetana il Signore della Morte è una divinità feroce, dal’aspetto terribile.
“ Colui che scioglie dai lacci” porta il nome di Yamantaka, ed è l’altra faccia
di Manjushri, Bodhisattva della saggezza i cui attributi sono il libro e la
spada che taglia dai lacci dell’ignoranza.. E’ rappresentato con una o più
teste taurine e con una o più braccia. Tale ambivalenza esprime la concezione
buddista della metamorfosi perpetua che regge l’intera esistenza. Il sentimento
profondo della morte non esclude che essa sia accompagnata da specifici riti.
Al contrario l’agonizzante viene accompagnato, al fine di superare serenamente
le tappe del suo cammino, e al momento che lo spirito vitale ha abbandonato il
corpo, preghiere e cerimonie si succedono per condurlo in un porto lungo i sentieri tortuosi dei regni
oltremondani del bardo. Viene
consultato il Lama officiante, o un astrologo al fine di determinare il programma
rituale e il momento più favorevole per la sua celebrazione.
Il mondo aldilà della
vita è popolato, per i tibetani, da creature singolari che, in realtà sono
proiezioni dello spirito umano e la cui simbologia ne riflette semplicemente le
paure e le angosce. Così i citipati, o maestri delle pire, sono accoliti di Yama,
e la loro raffigurazione come scheletri danzanti, di solito a coppie, la si ritrova insieme a quella delle divinità
feroci.
Essi illustrano la
natura effimera dell’esistenza e sono emblemi della cessazione
dell’attaccamento alla vita e delle sofferenze terrestri.
Le energie femminili
sono personificate dalle dakini.
Rappresentate spesso quali belle figure femminili, dall’espressione lievemente
minacciosa, solo i loro attributi- kapala, -collari di crani o spade- ne
indicano la natura, incitando i fedeli a farsene delle alleate piuttosto che
delle avversarie.
I citipati, accoliti del Signore della Morte |
Una volta abbandonato
dal soffio vitale, il cui punto è alla sommità del cranio, il cadavere deve
ritornare a uno dei suoi elementi costitutivi: fuoco, acqua, aria, fuoco.
L’inumazione era riservata ai grandi di questo mondo ( il re nel sepolcro, il
saggio nel chorten) imbalsamati e
vestiti degli abiti più preziosi. Alcuni grandi saggi realizzati avrebbero il
dono, giunto il momento, di “dissolversi” letteralmente in quello che viene
chiamato “ un corpo arcobaleno”.
L’usanza dei “funerali
celesti”è la più diffusa e viene
praticata in un luogo appartato, spesso nelle vicinanze dei monasteri, da
membri della corporazione dei ragyapa.
Essi hanno il compito di sezionare il cadavere ritualmente alla presenza di un
lama officiante e dei parenti del defunto e di gettare poi i resti in pasto
agli uccelli da preda. Per i tibetani si tratta di un’ultima prova di non
attaccamento a un corpo passeggero e di solidarietà verso altre creature che si
nutrono di altri resti.
Presso i tibetani
esiste una guida per evitare gli ostacoli sullo stretto sentiero che porta da
una vita all’altra. Si tratta del Bardo
Thodol, o Libro dei morti tibetano.
Il testo viene letto dall’officiante all’orecchio del morente, e gli spiega le
tappe del suo cammino spronandolo a non soccombere alla paura
nell’attraversamento dei luoghi sconosciuti, a disfarsi dell’attaccamento senza
tornare a spaventare i viventi e a cogliere l’occasione di apprender la Chiara
Luce quando la incontrerà.
Proprio per riuscire
in tale difficile passaggio i praticanti si sforzano, nella meditazione, di
stabilire una mappa di questo territorio disseminato di trappole, con lo scopo
di vivere coscientemente la morte, pegno essenziale per una buona rinascita.
Da “ Buddismo tibetano” di Claude B Levenson- Mondadori editore
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