7 aprile 1920
mio caro Barin,
ho ricevuto la tua lettera, ma fino ad oggi non sono
riuscito a risponderti. Anzi è un miracolo che adesso possa star seduto qui a
scriverti: per me è un vero e proprio avvenimento scrivere questa lettera; in
bengali, poi…
Parliamo prima di tutto del tuo Yoga: Vorresti
incaricarne me, e io non chiedo di meglio; ma questo vuol dire incaricarne
Colui che muove entrambi, te e me, apertamente o nascostamente, per mezzo della
sua divina Shakti. Devi perciò sapere che
come inevitabile conseguenza dovrai incamminarti per quella particolare strada
che Egli mi ha ordinato di seguire e che io chiamo la via dello “Yoga
integrale”. Il punto da cui sono partito- quello che mi è stato trasmesso da
Lelé - era solo una ricerca della Strada, un giro d’orizzonte: una prima presa
di contatto, un punto di partenza: prendere in mano o esaminare con rigore
questo o quell’aspetto dei vecchi Yoga parziali, sperimentandone a fondo uno
per poi passare ad un altro.
In seguito, una volta arrivato a Pondichéry, questa
condizione instabile è finita. Il Guru del mondo, che è dentro di noi, mi ha
dato allora tutte le istruzioni necessarie al mio cammino: la teoria completa,
le dieci membra del corpo di questo Yoga. Durante gli ultimi dieci anni me ne
ha fatto dissodare il terreno attraverso l’esperienza, che non è ancora
terminata. Ci vorranno forse ancora un paio di anni, per cui dubito di potere
tornare in Bengala prima che sia finita. Pondichéry è il luogo che mi è stato
indicato per le siddhi (realizzazione) del mio
Yoga, eccetto però per quanto riguarda una parte di questo Yoga: quella
dell’azione. Il centro del mio lavoro resta il Bengala; ma spero, il suo raggio
d’azione si estenderà a tutta l’India e alla terra intera.
Ti scriverò in seguito in che consiste il cammino di
questo Yoga. Oppure, se verrai qui, te lo spiegherò a voce. In questo campo è
meglio parlare che scrivere. Per il momento posso dire una cosa sola: il suo
principio basilare è di armonizzare e di unificare la perfetta conoscenza con
l’azione completa e con la completa bakti
(adorazione), innalzandole al di sopra della mente e in fondendovi una completa
perfezione sul piano sopramentale o Vijnana
( Gnosi). Il difetto dei vecchi Yoga consisteva nel fatto che, proprio perché
possedevano la conoscenza della mente, l’esperienza dello Spirito si accontentavano
di farla nella mente. Ma la mente riesce ad afferrare solo ciò che è diviso e
parziale: non può assolutamente cogliere l’infinito e l’indivisibile. I mezzi
di cui dispone per raggiungere l’infinito sono il Sannyasa ( Rinuncia), il Moksha
( Liberazione) e il Nirvana- altri non ne possiede. E
in effetti chiunque può raggiungere il Moksha senza- forma; ma a che pro’? Il
Brahman, il Sé, Dio, comunque esistono sempre. Quello che Dio vuole dall’uomo è potersi incarnare quaggiù
nell’individuo e nella collettività: realizzare Dio nella vita.
Le antiche strade yoghiche non sono riuscite ad
armonizzare o unificare lo spirito con la vita: al contrario, hanno rinnegato
il mondo, considerandolo maya o un effimero gioco. Il risultato è stato la
perdita del potere di vita e la degenerazione dell’India. Come dice la Gita: “ Se non mi dedico alle opere queste genti
periranno”. E le genti dell’India sono andate davvero in rovina. Alcuni sannyasin bairaga ( asceti) sono diventati
santi perfetti e liberati, alcuni bhakta (adoratori di Dio) si sono
messi a danzare nell’estasi folle dell’amore e nella dolce emozione dell’Ananda
(suprema gioia); e poi un popolo intero è diventato amorfo, svuotato di
intelligenza, è precipitato nel tamas (inerzia)- è questo il
risultato di una vera spiritualità? Certo che no, anche se dobbiamo innanzi
tutto arrivare ad avere tutte le possibili esperienze parziali sul piano
mentale, lasciando che la mente venga inondata ed illuminata dalla luce
spirituale; dopo di che, però, bisogna andare oltre. Se non andiamo oltre, se cioè non ci
innalziamo fino al piano sopramentale, non potremo mai conoscere il segreto
ultimo del mondo, e il problema che esso pone resterà irrisolto. Sul piano
sopramentale l’ignoranza generatrice della dualità Spirito-Materia e della
contrapposizione fra verità dello Spirito e verità della vita scompare. Lì non
è più possibile parlare del mondo come maya. Il mondo è il Gioco eterno di Dio,
la manifestazione eterna del Sé. Allora diventa possibile conoscere Dio
interamente, e possederLo interamente. “ ConoscerMi integralmente”, come si
esprime la Gita. Corpo fisico, vita, mente
e comprensione, Sopramentale, Ananda: sono questi i cinque piani dello Spirito.
Più l’uomo s’innalza lungo questa via ascendente, più si avvicina a quello
stato di perfezione suprema che si spalanca davanti alla sua evoluzione
spirituale. Una volta raggiunto il Sopramentale, è facile innalzarsi fino
all’Ananda. Allora si acquisisce la solida base di uno stato di Ananda
indivisibile e infinito non solo nel Parabrahman (Assoluto) fuori del tempo, ma anche nel corpo, nella vita, nel mondo.
L’essere integrale, la coscienza integrale, la Gioia integrale sbocciano e
prendono forma nella vita.
E’ questa la chiave di volta del mio Yoga, il suo
principio fondamentale.
Non è un cambiamento facile da realizzare. Dopo
quindici anni mi trovo ancora soltanto al più basso dei tre gradini del
Sopramentale, cercando di portare a quel livello tutte le attività inferiori.
Ma quando questa siddhi sarà completa, sono assolutamente certo che attraverso
di me Dio farà avere agli altri la siddhi sopramentale con uno sforzo meno
grande. A quel punto comincerà il mio vero lavoro.
Non sono impaziente di avere successo nel mio lavoro.
Quello che deve succedere succederà al momento voluto da Dio. Non sono portato
a muovermi con furia disordinata, né a precipitarmi nel campo dell’azione
lasciandomi spingere dagli impulsi del piccolo ego. Anche se non dovessi avere
nessun successo nel lavoro, non ne sarò turbato. Perché questo lavoro non è
mio, è di Dio. Non ascolterò nessun altro richiamo: quando Dio vorrà farmi
muovere, allora mi muoverò.
(…….La particolarità di questo Yoga sta nel fatto che
finché uno non ha raggiunto la siddhi in alto, le fondamenta non potranno mai
dirsi perfette. In quelli che mi hanno seguito sono rimaste molte vecchie samskara ( tendenze spirituali): alcune sono scomparse, ma
altre persistono. C’era la samskara della sannyasa
( rinuncia), e persino la tendenza a creare un Aravinda Math ( monastero di Sri Aurobindo). Adesso l’intelletto ha si riconosciuto
che quello che ci vuole non è la rinuncia….)
Lo scopo che mi prefiggo non è una società basata,
come la nostra attuale sulla divisione. Quello che ho in mente è un Samgha (comunità) basata sullo spirito, a immagine dell’unità
spirituale. E’ da questo nome che mi è venuto il nome di Deva Samgha, cioè comunità di coloro che vogliono la vita
divina. Un Samgha di questo genere deve cominciare a sorgere in un punto, per
poi espandersi in tutto il paese. Ma basta che sull’impresa cada la minima
ombra di egoismo perché il Samgha si tramuti in una setta…..
Mi dirai : " Ma che bisogno c’è di un Samgha?
L’importante è essere liberi e vivere in tutte le forme- che ognuno diventi
l’Uno senza-forma, e poi in quest’immensità senza forma sarà quel che
dev’essere!” C’è del vero in questo, ma è solo un aspetto della verità. Perché
noi non abbiamo a che fare solo con lo Spirito privo di forma: dobbiamo anche
governare il moto della vita. E senza una forma non ci può essere nessun reale
movimento. Se il Senza- Forma ha preso forma, se ha assunto un nome e una
forma, non è stato certo per un capriccio di Maya (l’illusione). Se esiste una
forma è perché una forma è indispensabile. Noi non vogliamo escludere dal
nostro campo d’azione nessuna attività del mondo. Politica, industria, società,
poesia, letteratura, arte: tutte queste attività continueranno ad esistere; ma
dobbiamo dare a ciascuna un’anima nuova e una nuova forma.
Da L’Agenda
di Mére
22 luglio
1962, pag 302